La professione del terzo millennio? Potrebbe essere quella del gastronomo. Ne sono convinti all’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, la cittadella di Slow Food immersa tra i vitigni di Langhe e Roero dove giovani provenienti da tutto il mondo arrivano per studiare biodiversità alimentare, scienza dell’agricoltura, storia della cucina e del vino, geografia, turismo e molto altro ancora. Io mi ci sono imbattuta per caso qualche settimana fa e ho scoperto che in realtà questo polo universitario, ospitato dal meraviglioso complesso sabaudo dell’Agenzia di Pollenzo, ha da poco compiuto dieci anni. Un tempo abbastanza lungo per tirare le prime somme e scoprire che, secondo le rilevazioni dell’Ateneo, dei primi 1000 laureati l’85 per cento ha trovato un posto di lavoro entro sei mesi dalla laurea. Nel 90 per cento dei casi si tratta di un’occupazione coerente alle aspirazioni e al percorso di studi dei ragazzi. Non male, ho pensato, nel periodo di massimo storico di disoccupazione giovanile, ormai saldamente ferma sopra il 40 per cento. “Qui creiamo i gastronomi del terzo millennio. Una figura completa – mi ha raccontato il vicepresidente dell’Università, Silvio Barbero – in grado di analizzare il mondo dell’alimentazione nella sua complessità”.
L’Ateneo, riconosciuto dall’ordinamento italiano, conta ogni anno circa 500 iscritti, suddividi tra il corso di laurea triennale in Scienze Gastronomiche, quello specialistico in Gestione e promozione del patrimonio gastronomico e turistico e quattro master. Il 55 per cento degli studenti proviene da 65 diversi paesi del mondo. Per la laurea triennale quest’anno sono arrivate per gli 85 posti disponibili più di 300 domande. “Nel complesso di crisi che stiamo attraversando l‘avvicinamento al mondo del cibo richiede un approccio nuovo, olistico, basato sul confronto dei diversi saperi. L’università – prosegue Barbero – rappresenta una grande piattaforma culturale nella quale i saperi tradizionali possono dialogare con quelli industriali, ad esempio portando avanti ricerche innovative per mettere a punto nuovi modelli di creazione e distribuzione del cibo, che siano però rispettosi delle tradizioni locali”. È per questo che gli studenti di Pollenzo hanno sempre la valigia pronta per viaggi didattici che in Italia e nel mondo li portano a visitare aziende agricole, cantine vitivinicole, realtà impegnate nella promozione dei territori e delle loro specialità, a incontrare produttori, pescatori e imprenditori, a conoscere le specificità gastronomiche delle diverse regioni.
Poi, ci sono i corsi di alto apprendistato per panettieri, pizzaioli, mastri birrai e affinatori di formaggi, maître di sala e, ancora, la Scuola di Cucina inaugurata in occasione del decennale dell’Ateneo con i Master in Cucina Popolare Italiana di Qualità e in the Slow Art of Italian Cuisine. Legata all’Università è anche la Banca del Vino, creata da Slow Food nel 2001 con l’obiettivo di costruire la memoria storica del vino italiano, selezionando e conservando i migliori vini della Penisola. Nelle cantine dell’Agenzia sono oltre 150mila le bottiglie stoccate di tutte le annate, dal 1998 in avanti. Qui, gli studenti del Master in Cultura del vino italiano vengono impiegati in stage e tirocini. Nel farmi da guida durante il tour a questa particolarissima Banca uno di loro mi ha spiegato: “Il valore del cibo e del vino sta tutto nella condivisione”.
Come dargli torto. D’altra parte, la filosofia alla base dell’esperienza di Pollenzo l’ha riassunta bene lo stesso Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, quando l’estate scorsa, in occasione dei festeggiamenti per i 10 anni dell’Ateneo, ha parlato di Pollenzo come di un “progetto politico per un un nuovo umanesimo”, per una gastronomia che, avendo a che fare con concetti come cibo, giustizia, biodiversità, cultura, sia “scienza della vita e della quotidianità e riguardi tutta la nostra esistenza, non soltanto il piacere monetizzato del nostro tempo libero”. Un buon punto di partenza per il terzo millennio.
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